La Mia Santità

Locandina della Presentazione del Libro
23 Luglio 2005
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http://www.letteralmente.com/vetrina_ed.asp?nome_casa=Progetto%20Cultura%202003
http://www.progettocultura.it/recensioni.htm
http://www.sicily-news.com/news.cfm?id=2231
http://www.cralentilocali.it/attivita/cultura.htm
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DAL DIARIO "LA MIA SANTITA"

Vladimiro- Ah, si, ci sono; quella storia dei ladroni. Ti ricordi?

Estragone- No

Vladimiro- Farà passare il tempo.(pausa) Erano due ladri e furono crocifissi insieme al Salvatore. Si dice…

Estragone- Il cosa?

Vladimiro- Il Salvatore. Due ladri. Si dice che uno fu salvato e l’altro…(cerca il contrario di salvato)…dannato

Estragone- Salvato da che cosa?

Vladimiro- Dall’Inferno.

Estragone- Io me ne vado. (non si muove)

Vladimiro- E tuttavia…(pausa) Come si spiega che… Dì, non ti annoio mica, per caso.

Estragone- Non sto ascoltando

Vladimiro- Come si spiega che dei quattro evangelisti, uno solo racconti il fatto in questo modo? Eppure erano lì, tutti e quattro o almeno, da quelle parti.

Uno solo dice che un ladrone si è salvato. (pausa) Dai, Gogo, bisogna darmi la replica di tanto in tanto…

Le battute dell’ "Aspettando Godot" di Beckett si trovavano per caso su una panca dello studio per colpire la mia immaginazione.

Le frasi asciutte, intense, essenziali mi facevano venire la vertigine. Il foglio stampato giaceva come se vi fosse stato messo dalla mano della provvidenza. All’inizio dei miei studi filosofici, a sedici - diciassette anni mi incontravo con una delle opere più rappresentative dell’umanità intera, della sua storia. E forse questo fatto accadde in terza media. Che importa? Quello avrei dovuto fare, quello avrei fatto da ora in poi: scrivere teatro . Potevo sperare di raggiungere quella perfezione: io con tutta la mia ambizione di santità che ora avrei riversato sulla scrittura teatrale.

Le frasi di Beckett mi squarciavano l’animo e aprivano un illimitato orizzonte al mio pensiero. Io posso arrivare a tali esiti. Non sono da meno di Beckett. "Si dice che uno fu salvato e l’altro…(cerca il contrario ) … dannato". E una battuta così forte ad un tratto faceva sprofondare nel nulla tutto ciò che avevo imparato in seminario, che avevo imparato da tutta una vita all’ombra della chiesa.

In quelle frasi, in quello scarno, essenziale, metafisico dialogo tra Vladimiro ed Estragone vi era "La morte di Dio ". Appunto avevo cominciato a conoscere la dottrina dei "teologi della morte di Dio" così di moda allora. La teologia del nulla mi dava suggestioni e creatività. Come se fossero uscite da me quelle frasi, così familiari, e così tremendamente vere. Le opere che ora avrei scritto avrebbero fatto un salto di qualità, non le roboanti del tempo del ginnasio, come la commedia che avevo registrato con antico registratore marcato "geloso". Io ne ero l’autore, regista, voce degli attori, dei due protagonisti che osavano fare l’amore senza essere sposati, profanando così il loro corpo di adolescenti, infangando la loro purezza, per finire tormentati dal rimorso. Io, unico spettatore, ascoltavo la commedia che avevo scritto e recitato registrando la voce su un registratore antico, marcato "geloso".(CAP.XXVI).

 

DAL DIARIO AUTOBIOGRAFICO "LA MIA SANTITÀ"

" Ho bisogno di chiarezza: chiarezza dentro e fuori di me. Un Dio o un demonio mi tormenta. Ho tanta oscurità nella mente. Mi sento stordito e confuso. Dio, ti imploro, dammi tregua , ho bisogno di luce. Mi allontano da te. Sembra un evento inevitabile. Dentro ogni cosa si muove e si rimuove. Mi sento la pelle come la muta del serpente. Tu, mio Dio, mi abbandoni. Ti allontani da me". Era il senso della mia preghiera, ripetuta mentalmente, ginocchioni, in un angolo della cappella del policlinico Gemelli. La mia ambizione di santità era stata alquanto frustrata, la pretesa di possedere Dio e di esserne posseduto si frantumava irreversibilmente in uno smarrimento dove il demonio prendeva il sopravvento. Era la sconfinata ambizione o forse compensazione, una compensazione nobile, altissima di raggiungere gli estremi limiti, di conquistare l'ultima verità. Avevo pagato un tempo infinito in anni assurdi, febbrili, con un fervore intenso, una fede cieca fin da quell'incontro memorabile nel Gennaio del 6I della mia terza elementare. (Cap. IV).

In quella chiesa vi erano senz'altro nascosti incommensurabili segreti. E forse dietro quella Madonna vi era il paradiso. In qualche angolo doveva pur esserci l'accesso per l'inferno. Era stato un impatto sconvolgente con Dio. Quell'incontro indirizzò la mia vita. (Cap. V)

Padre Pio era così santo quando morì nel 68, l'anno della rivoluzione, che era tutto un mistero con i suoi miracoli e le stimmate, le bilocazioni, i profumi, le lotte col demonio. Era stato predestinato nella mente di Dio, prima ancora di nascere, ad essere santo, non aveva avuto la libertà di dannarsi. (Cap. V)

Il demonio mi stava davanti. O forse mi guardava di traverso in quel particolare aspetto di potenza e di bellezza che sfavillava nei suoi occhi duri e feroci. Era il mio demonio, apparizione superba, consapevole della eternità della sua perdizione. (Cap.VII)

All'improvviso si impossessò di me la paura di morire . Una paura viva e forte.

Mi sentii stranito, come proiettato in una dimensione luminosa e più vera. L'impiantito del cortile, le pietre bianche dei muri, gli alberi di tiglio risaltavano con linee più marcate sotto la luce lunare. Immagini in rilievo con contorni netti!

Era un'esperienza intensa di splendore nella sera già scesa, negli angoli più riposti e remoti, una sensazione singolare, surreale, sognante. Come in un meraviglioso cartone animato o in un paesaggio incantato da fiaba. (Cap. X)

Tutta quella umanità sofferente entrava attraverso i pori della mia pelle dentro di me, nel mio cervello e diventava oggetto e materia di mie nuove elaborazioni mentali e mi allontanava dal seminario che ora vedevo prigione della mia fantasia e delle mie potenzialità, luogo chiuso della mia innocenza incantata, stantio e odoroso di morte, specchio opaco che non mi rifletteva, specchio che deformava la mia immagine riflessa. (Cap. XI)

"O mio Dio- come ringraziarvi per tutto il bene che mi avete ricolmato in questo giorno?… Se questo giorno, o mio Dio, dovesse essere l'ultimo della mia vita. Se questa preghiera l'ultima che vi rivolga, abbiate pietà di me, o Signore, e fate che il pensiero della morte- la quale potrebbe facilmente sorprendermi non sia per me spaventoso…" recitava con voce lamentosa il fratello gesuita dalla narice otturata, con il collo storto, in ginocchio, sugli scalini del coro di S. Maria, di fronte al tabernacolo.

E noi, ragazzi, in ginocchio attorno a lui, facevamo il breve esame di coscienza, previsto nella preghiera, stampata in un libretto a cura del collegio di Maria.

Nel silenzio serotino, nella semioscurità di luci deboli, nella sacralità misteriosa del tempio, anticamera del paradiso e dell'inferno, in ginocchio, la voce suadente e lamentosa mi penetrava dentro e penetrava la frase "il pensiero della morte… la quale potrebbe facilmente sorprendermi". E stringevo, in ginocchio che ero sugli scalini, goffamente le gambe e mi muovevo nello sforzo eroico di trattenere l'imperioso bisogno di mingere. Allenavo la vescica in attesa del tempo difficile del seminario. Finalmente si andava a casa. A volte continuavo ad attardarmi nel piano di sopra per la cena, nel luogo del mio demonio. (Cap. XIV)

Il Sabato sera, durante il cambio della biancheria intima, non solo ci si svestiva sotto le lenzuola ma veniva spenta anche la piccola luce rossa. L'atto era diventato più solenne e grave e investiva maggiore responsabilità e perciò la dannazione e il peccato erano ancora più prossimi. Buio completo! Le mani, al buio, sotto le coperte, sfioravano la pelle senza anima, si allontanavano pudiche e pure dal povero pube, causa di tanta immondezza! Avevamo la colpa di essere corpo, quel corpo. Era corpo senza carne e alito. Per lui il buio senza appello. Le nostre anime respiravano nonostante il peccato incombesse. Nella continua paura di peccare, forse, nella misteriosità di tanto rigore, nei tanto severi castighi, stava il nostro più grande peccato, la forza della nostra sensualità.(Cap. XV)

"E molti altri santi e martiri…" sempre così finiva la lettura giornaliera del martirologio romano alla fine della cena. E traboccava il sangue dei martiri sotto i crudeli imperatori romani sulle nostre mense, su quei poveri tavoli in formica di vario colore, giallo, blu, rosso, verde, sulla nostra digestione e ci accompagnava nel sonno, anche se si ascoltava distrattamente, senza dar peso, ma traboccava anche sul lungo tavolo dei superiori con copri- tavolo di lino bianco, sulle oliere, sul sale e il vino, sulle loro pietanze più abbondanti, sulla carne quotidiana e macchiava il candore del lino, il rosso del vino come il tavolo del refettorio di S. Maria dove il padre Deodato consumava i suoi pasti da solo, a volte con ospiti, e dove si aggirava il diavolo, fantasma in cerca di anime. (Cap. XVI)

"Quando i miei piedi immobili…" la preghiera della buona morte alla fine del ritiro spirituale si snodava nella voce e negli accenti tenebrosa e contemplante come un accadimento prossimo e terrificante e metteva una tale paura da stringere in un nodo fatale la gabbia toracica. "Dies irae, sine illa, solvet saeculum in favilla…" seguiva il tragico canto del giudizio universale, della vendetta implacabile divina, della cosmica distruzione per cui non c'era salvezza. La resa dei conti finale, la lunga attesa di un Dio corrucciato e crudele finalmente al suo epilogo. Così che , mentre mi si paralizzavano le gambe e man mano tutto il corpo e la voce si ammutoliva nella rigidità cadaverica e l'anima mia si sentiva penetrare dal primo giudizio individuale di Dio, vedevo allora cadermi addosso le stelle, il suono delle trombe che raggiungeva ogni angolo dell'Universo e stella contro stella, terra contro terra, lo spazio si squarciava, i morti risuscitavano, i monti e i mari sconvolti alla radice e apparivano impaurite, sgomente le anime incontro ai corpi di fronte all'indice accusatore e irrevocabile del Creatore, ormai stanco del suo creato.(Cap. XXI)

Nel buio tutto era possibile. Nel buio si vedono le cose nascoste dalla luce, si vedono gli occhi degli spiriti, si palpano presenze illimitate. Nel buio si respira con la mente. La mia immaginazione disegnava contorni di sagome e volti senza forma. Le teste di cera avrebbero potuto dare forma ai fantasmi del sonno. Chi le aveva modellate e poi messe lì nella soffitta? Non le avevano messe forse per me, per spaventarmi?

Nel buio anche rumori impercettibili assumono rilievo. Scricchiolii del letto dove mi rannicchiavo, mormorii della mia voce che pregava, moti dell'animo che vince la paura, pozzi tenebrosi senza fondo, inferni spalancati in ogni angolo di stanza…Il demonio non poteva sorprendermi… Avevo dalla mia parte Dio. La corona che portavo al collo e il crocifisso mi avrebbero difeso.

Solennità sacra e immensa del silenzio e del buio del convento deserto con i suoi antri misteriosi, i luoghi segreti, e la chiesa col tabernacolo dalla porta girevole e la Madonna di Fatima, al di là della quale vi era il paradiso. Un altro essere: "U' Patri" dormiva in una stanza dell'altra ala. Immensità, profondità inesauribile della mia innocenza che giocava con la paura, nella notte fitta, nella notte fatale delle streghe, dei patti col demonio dagli occhi crudeli, pronto a tormentare, delle forze tenebrose del male potente e implacabile! Forse ero penetrato, senza rendermene conto, nell'impenetrabile, nel mistero! Avevo colto, inconsapevole, bagliori della verità. Imparavo ad ascoltare il silenzio, a decifrare i suoi segnali per imparare ad ascoltare gli altri, per imparare a sentire le pene del mondo, per diventare conoscitore di uomini! L'umanità non sa ascoltare il silenzio… Ho dentro di me il buio, il silenzio, il convento deserto. "Madre mia, tutto mi dono a voi, le orecchie, la bocca, il cuore, tutto me stesso…"Dio mio, proteggimi…" pregavo nell'oscurità tutta in movimento.

E tutto ciò fa parte dell'ombra più oscura, che coltivo sempre come la parte nascosta, come il senso segreto e inviolabile, oscurità che confonde senza la quale non esiste la luce. "Ombra, tu, mia ombra, compagna inseparabile di tutti i momenti intensi della vita, nella solitudine e nel dolore, nella gioia e nella gloria, sottile eppure dilatata all'infinito. Ombra, mio doppio che mi respira alle spalle, che mi si scontra di fronte, estraneo e familiare ad un tempo, oscurità della mia luce, luce che accende la mia oscurità, sotterranea e solare, tortuosa e limpida, mio limite e mio infinito, mio confine sconfinato. Male e bene, fino alla morte, anche dopo la morte, perché tu sei la vita ma sei anche la morte. Da tempo non ti do più ascolto e tu non parli con la tua voce sussurrata. Indaffarati, viviamo la nostra agonia. (Cap. XXV)

Vedevo chiudere più volte le valigie ormai pronte! Adagio per non svegliarmi! Ma io ero sveglio e fingevo di dormire con gli occhi chiusi. Fingevo di dormire per risparmiarmi l'angoscia della loro partenza. Mi faceva male salutarli.

Anche loro, forse, si accorsero che ero sveglio, ma facevano piano per non svegliarmi. (Cap. XXVI)

"Chi sono?… le mani sul volto…chi sono?…con le mani copro il volto diventato vecchio ad un tratto…come in uno specchio…mi vedo con occhi esterni. Come mai quelle rughe profonde che solcano carne indurita dagli anni? Avrò settanta-ottantanni non so! Improvvisi quegli anni in una notte. La vecchiaia mi aveva preso in una notte nel volto indurito, nei capelli bianchi o senza capelli, nel corpo raggrinzito. Ed ebbi orrore del mio volto, delle mie mani, del corpo vecchio! A quindici anni ebbi orrore della vecchiaia, di quella improvvisa vecchiaia. Mi svegliai dal sogno che mi impressionava ancora ad occhi aperti, da sveglio.(Cap. XXVI):

Mi avvio alla morte con i piedi nudi, umile, senza aureola. Non voglio dar fastidio nella morte. Mi presenterò con la mia superbia e con i miei peccati, non credente, corrotto di cuore e di menzogne. Sarò solo ricordo di coloro che mi conobbero, scomparirò anche dal ricordo. Mi abituo all'idea che la morte è anche mia, non è solo cosa degli altri. La vita piena di durezze mi ha reso peccatore.

Ho seguito la via opposta a quella di S. Agostino che dalla dissolutezza raggiunse la santità. Ma io non ho fede, non posso pentirmi del mio peccato. Non ricordo più come si prega e come ci si inginocchia per chiedere perdono e non so chiedere nemmeno in piedi. Mi sembra un atteggiamento strano, incomprensibile, infinitamente lontano da me. Ho ceduto le chiavi del paradiso. L'accesso mi è precluso per sempre. Da questa lontananza infinita, in questa mia miscredenza, che è il mio peccato, snodo di ogni altro peccato, Dio, se tu esisti, sotto qualsiasi forma esisti, se si tratti di forma, ti ho cercato fino allo spasimo. Lontani, io e te, staremo a guardarci negli occhi, i miei occhi umani con i tuoi occhi divini, eterni, per sempre lontani.

Il mio paradiso sarà questo sguardo da lontano. E anche il mio inferno. Non mi avvicinerò. Non potrò avvicinarmi perché anche di là sarai un fantasma. Posso solo guardare o immaginare di guardarti.

Il paradiso equivale all'inferno.

Nel momento dello scandalo emergeranno i miei peccati: lo scacco finale!

Nel momento dello scandalo emergeranno i miei dolori, le mie croci, l'amore che ho versato, la mia luce!

Nell'ora in cui verrai, morte, sotto qualsiasi aspetto ti presenterai, fai che sia un tripudio di luce, una festa di musica, il banchetto finale in cui non ci siano assenti!

Sarò seppellito con il solito, inutile rito!

Io non ho conseguito la santità. Questa è la mia santità.(Cap. XXVII)

 

DAL DIARIO "LA MIA SANTITÀ"

Il romanzo avrebbe avuto come titolo "La Risposta".

E invece "La Risposta" sarà il titolo della prima opera teatrale.

La risposta, quella risposta che né il seminario, né la chiesa, né la filosofia, né la storia, né la medicina avevano saputo darmi. Che stava nei meandri dell'animo umano, che stava negli abissi dell'Universo, che si nascondeva nelle formule scientifiche che studiavo all'Università, che si annidava tra vita e morte, sul punto di vivere, sul punto di morire, che mi era apparsa bizzarra e fantasmagorica nei silenzi e nelle notti di S. Maria.

Tra gli anni del liceo e quelli dell'Università prendeva forma l'opera immortale. L'avevo scritta, annullata e poi completamente rifatta, e una stesura e un'altra e un'altra ancora, e poi cancellato intere scene per sostituirle con altre più ardite, e cercare un nuovo stile che fosse mio, inconfondibile, sempre più insoddisfatto, sempre più tormentato, per raggiungere una gloria tutta nuova e giocare con la verità. Anche il mio inconscio partecipava alla stesura dell'opera. Alcune scene sono partorite nel sogno, esse si snodano nel sogno, fantasmi che recitano, figure caricaturali che svaniscono nel grottesco, bozze di espressioni e gesti arcani, misteriosi, personaggi in strani costumi che mi girano attorno e mi vengono addosso ronzando con gesti di sfida, una finta sfida mi pare. Nel sogno ero consapevole che si trattava di scene dell'opera che stavo per scrivere.

Anche di notte, mentre dormo, io continuo a creare sognando, per non sottrarre tempo al mio tempo, vigile anche nel sonno.

I fantasmi del sogno recitano per me, solo per me, una scena inimitabile, inarrivabile, per la prima volta, il mio spettacolo, attori straordinari. Era un segno del destino. Quello era solo l'inizio.

Le compagnie teatrali avrebbero calcato i palcoscenici della terra per recitare le mie opere. E nella notte mi svegliavo e scrivevo nella frenesia del sogno. Avrei dato un contributo decisivo alla letteratura universale. Negli anni della mia adolescenza avevo già creato un capolavoro. Mentre studiavo all'Università, mentre facevo l'istitutore al D. Bosco di Palermo per mantenermi agli studi, avevo preparato le basi del mio prossimo, incredibile successo, avrei fatto conoscere la mia straordinarietà.

 

DA "LA MIA SANTITÀ"

Durante la battitura de "La macchia", il tipografo era stato costretto ad uscire fuori dalla sala fuori alla luce del sole per un senso di costrizione alla gola che la vicenda di quell'opera gli aveva provocato. "Avevo qui," disse, "un'angoscia del chiuso che mi costrinse a scappare. Aspettavo con forte tensione che da un momento all'altro quei personaggi ottenessero la loro liberazione e invece…"

I personaggi soccombevano alla Macchia e lui con i personaggi.

 

Maggio 1999

Caro Mario, vorrei adesso soffermarmi sulla prima delle opere teatrali che ho letto, "La Macchia", che più delle altre mi ha colpito e sorpreso per l'atmosfera Kafkiana che la pervade, un progressivo percorso angoscioso che come ne "Il Processo" di Kafka non può che terminare con la cancellazione delle vittime.

In quest'opera tre persone, un giornalista, un ingegnere e un pensionato si trovano bloccati in una "prigione della polizia" (così almeno recita il prologo della scena prima). Via via che tuttavia si procede nella lettura, seguendo momento per momento la progressiva scalata dell'angoscia dei protagonisti, vittime meravigliate di tale prigionia, in un'atmosfera sempre più da incubo dal quale si è impossibilitati ad uscire, nasce dapprima lieve, poi sempre più deciso, il sospetto che tutto quanto non possa e non debba essere quello che appare sul palcoscenico (in pratica tre persone che protestano contro un arresto ingiusto e assurdo), bensì la metafora di " ben altro", un "ben altro" che ciascuno (e questa è un'altra saliente caratteristica dell'autore) è libero di interpretare come sente: io stesso ho sentito (con una preoccupante sensazione di costrizione alla gola) che si tratta invero della metafora di un'altra prigione, della "vera prigione", cui fin dalla nascita siamo stati condannati, e che è la vita di ciascuno, di ognuno di noi, senza confini geografici o temporali.

Ci furono applausi e lodi in una giornata di neve, in una palestra appena allestita, in un paese disagiato del centro Sicilia. Non solo le persone più colte avevano applaudito coinvolte dalle provocazioni e dalle sollecitazioni del testo così ben recitato dalla cooperativa "Teatro nuovo" di Palermo ma molti degli spettatori risposero alle interviste entusiasti e attoniti.

Com'è che non accadde che quest'opera fosse portata in tutti i teatri della terra, nei palcoscenici del mondo?

La terra intera avrebbe dovuto vederla per esserne infetta come la peste, per essere trasformata, perché neanche le pietre rimarrebbero insensibili a tanta arte.

Qualche articolo di giornale e poi… La neve ha cancellato le tracce. E invece silenzio. Silenzio da dieci anni. Solo una pubblicazione di racconti "Neri e Grotteschi" che non sono ne neri ne grotteschi, non hanno spostato il silenzio.

E invece mi è venuta voglia di non far nulla, lasciare giacere le opere, lasciare ingiallire le carte dove ho scritto inutilmente, finire i giorni senza memoria, senza più alcun desiderio verso il vicolo chiuso dove ogni giorno ci avviamo. (Cap. XXVII)

"O che venga ricordato come un grande nella storia e nella letteratura o non rimanga memoria di me" Ma io sono un grande. Ho scritto un vasto numero di opere prima dei trent'anni.

Avrei già dovuto conquistare la fama ma non l'ho cercata.

Avrei già dovuto ricevere il premio Nobel ma non ho fatto nulla per averlo.

Potrei dire solo una verità e per una sola volta.

Io non ho cercato la gloria e non la cerco. Ho troppo orgoglio per cercarla alla luce del sole. Cercarla è vanità e umiliazione. Essa deve venire da sola, così per caso perché la merito. Io ho conquistato in segreto la gloria che non è venuta.

"Le tue opere stenteranno a farsi una strada ma una volta note non tramonteranno mai". Era una burla, una presa in giro ma ho finito per convincermene. E quella drammatica rappresentazione che aveva strappato gli applausi dei paesani e li aveva reso attoniti, avrebbe smosso anche le pietre, avrebbe scomodato il destino stesso, sarebbe stata capace di cambiare la storia.

"Il teatro di Mario Ricotta rappresenta una svolta nel teatro europeo" quel giorno si disse anche questo. Se ne dissero tante quel giorno.

Io sono immortale, le mie opere sono immortali. Mi illudo di essere stato una svolta (una svolta segreta) per il teatro universale. ( Cap. XXVII)

27/Agosto/88

Caro Mario,

……..Perché i testi, nei contenuti e nella scrittura sono belli, esemplari, originali 8non sono drammi, anche se capisco che non sono commedie). ..A questo proposito suggerisco, per non essere troppo banale ed evitare quindi "Drammi" "Commedie". "Teatro ironico" o "Teatro dell'ironia" o qualcosa di simile, vedi anche tu cosa ti viene in mente.

 

9/Agosto/1988

Caro Mario,

Ho corretto poco fa le bozze de "La bottega all'angolo". Bravo! Non teatro di "parola" ma di "emozioni", verità inconsce e crudeltà dell'esistenza e del tempo….

 

Ma cosa dissero quel giorno 18/12/1988

…Paragonerei addirittura Ricotta al castello (riferendosi al castello di Mussomeli) come monumento di un teatro assolutamente straordinario e non scritto da nessun autore siciliano. In questo teatro si possono fare riferimenti, come è scritto da più parti nel libro (da Maffia, da Reina, da Bellezza, da me stesso) a quasi tutti gli autori contemporanei e ai greci. Ricotta apparecchia una grande tavola, poi la smonta, ci fa vedere pian piano le costruzioni, poi le annulla, le sconvolge praticamente, e tutto, come dire, viceversa; sembrerebbe ogni volta arrivare ad una soluzione….(bisognerebbe quasi appuntarsi le immagini) e invece viene distrutta qualsiasi soluzione, sembra che stia per essere afferrata, e viene capovolta…

Beppe Costa