25/01/2006
Anteprima nuova Prefazione
Chi, entrando in libreria, vede un libro intitolato La mia santità ha immediata l’impressione che si tratti delle confessioni di un asceta, di un papa, di un uomo che in effetti, magari passando attraverso mille prove infernali, ha raggiunto poi lo stato pieno della Grazia Divina. La mia santità predispone alla lettura di un percorso di preghiere che si conclude alla fine in un trionfo dello Spirito Santo.
Naturalmente sono i condizionamenti a portare il lettore dentro un sentiero interpretativo obbligato; i libri bisogna leggerli, evitare di farsi catturare o allontanare soltanto dal titolo che comunque, in questo caso, ha una sua forte valenza, perché stigmatizza la realtà di un itinerario fortemente connotato dal desiderio di diventare santo.
Si tratta di una storia di seminario raccontata in prima persona. Niente finzioni perciò, niente sotterfugi, ma fatti nella loro crudezza, analisi autentiche.
Sulla vita dei seminari è stato scritto moltissimo (Leonardo Gallo, Rodolfo Doni, Luigi Santucci, per fare qualche nome recente) . La gran parte ha molta acredine, è un grido di ribellione, una denuncia, una condanna e fa perdere di vista la condizione obiettiva di un luogo che ha prodotto molti guasti nella psiche di fanciulli che non hanno saputo reagire alle imposizioni, alle torture giornaliere, alle vessazioni e agli obblighi di un modo di concepire l’educazione in maniera rigida e spesso ottusa. Ma senza andare alla ricerca di libri specifici sulla vita dei seminari, basta leggere alcune pagine di grandi narratori o poeti che sono transitati per conventi e convitti e rendersi conto di quanti inferni è stata costellata la via della “santità”, raggiunta o meno.
Il caso di Mario Ricotta è molto diverso, il suo “diario” non ha la funzione liberatoria di quello di tanti altri. Egli ha lavorato a questo libro quando già era fuori dai condizionamenti, ormai medico psichiatra, scrittore affermato di teatro e narratore, non gli è servito per redimersi, per uscire dal guado delle angosce e dalle ombre gigantesche degli incubi. Ha voluto raccontare la sua vicenda umana perché esemplare, ma soprattutto per far conoscere la dimensione di una civiltà che portava nel suo seno un metodo sbagliato.
Ecco perché non troviamo recriminazioni o irose elucubrazioni. Mario Ricotta ripercorre la sua esperienza con serenità, senza coprire di rancore gli eventi ma neppure colorendoli di particolare carica emotiva. Insomma, egli dimentica che il protagonista del libro è s e stesso e riesce a narrare con obiettività, in modo da rendere partecipi tutti, da far diventare la sua vicenda quella di ognuno. In questo senso dicevo che la storia è diversa dalle altre che per lo più sono rimaste ancorate ai dati personali e non sono uscite dal pantano dei ricordi e del patetico.
Difficile tuttavia sintetizzare un libro così complesso. Ricotta non si è limitato a seguire il se stesso adolescente negli andirivieni della sua coscienza e nei viaggi tra la Sicilia e Roma, ha arricchito il testo di quella sapienza che gli è propria e ha fatto in modo da dare rilievo a ognuno dei protagonisti che si incontrano durante il percorso. E ha fatto bene, i “ritratti” sono fermati con mano decisa, non hanno sbavature e riescono a offrire un’immagine precisa del loro modo di essere. Ricotta, per una innata sensibilità ma anche per la sua professione, sa ormai decifrare i comportamenti e quindi caratterizzare decisamente i compagni di viaggio.
Sono convinto che se un poliziotto esperto si piegasse al gioco di fare un identikit delle figure descritte da Mario, verrebbero fuori delle somiglianze perfette. Eppure non c’è nessun eccesso di realismo, semmai c’è il fiato che crea e compone l’umanità autentica di ognuno.
Credo che una qualità del genere non appartiene a molti scrittori che per lo più giocano sugli stereotipi.
Questo è uno solo dei tanti meriti del libro. Ve ne sono molti altri. Essendo essenzialmente una sorta di educazione sentimentale (per citare Balzac), ci è permesso di seguire passa passo le accensioni del ragazzo alle prese con i sacrifici, con le rinunce, con il desiderio di essere puro, di non scontentare il Signore. E’ una lotta serrata, un inabissarsi e un riemergere di volta in volta sempre più carico di un fardello troppo pesante.
Il ragazzo non geme, ma osserva e macera, non compie gesti eclatanti, ma dominando le sue pulsioni dilata dentro di sé il desiderio di libertà, il desiderio di conquistare se stesso fuori dalla direzione progettata dalla Chiesa .
Qui bisognerebbe aprire una lunga e circostanziata parentesi su come sono stati gestiti i seminari fino agli anni sessanta, ma credo sia inessenziale, mi preme adesso soprattutto porre in rilievo la capacità di Ricotta di saper entrare nei meandri della coscienza e saperne trarre indicazioni lampanti che illuminano la verità delle necessarie sfumature e la rendono visibile. Così facendo egli ricostruisce il clima di un’epoca, di una comunità, e lo fa con leggerezza espressiva, indicandoci la direzione da non prendere.
Il libro è fitto di annotazioni di ogni genere, da quelle antropologiche a quelle etnologiche, da quelle filosofiche a quelle, ovviamente, teologiche, ma le annotazioni non sopravanzano mai la fluidità narrativa sempre ben calibrata e corposa, densa di umori, di lieviti, di quel dato etico che sorregge l’intera impalcatura.
Vorrei che il lettore meditasse alcune frasi di Ricotta, una soprattutto: “E io ero un peccatore nato perché avevo tanta immaginazione”. Credo che il dramma narrato si sia svolto e consumato ( e in parte prosegua) tutto attorno a questa affermazione. Chi entrava in seminario non doveva avere immaginazione, doveva restare inchiodato alle regole, evitare di sognare, di avere pensieri propri. Non aveva importanza se così si uccideva la fantasia, anzi era bene che tutto restasse chiuso nel recinto del grigiore delle abitudini.
Mi viene in mente il romanzo di Tommaso Campanella, il livido furore dei priori dei vari conventi per cui transitò: la sua presenza portava lo scompiglio, era un frate che si cibava di poesia, Dio ne liberi!, e quindi peccatore incallito!
Su questo versante andremmo a finire nella sociologia della Chiesa, perciò torniamo a La mia santità, per esempio a come viene trattato il problema di Dio. Ricotta non si pone pedissequamente nel solco delle dottrine imperanti, non piega il capo dinanzi all’arroganza del dettato canonico. Vuole capire, forse ha già letto un po’ di Sant’Agostino, di Sant’Anselmo e di San Giovanni della Croce, forse ha sfogliato alcune pagine di Montagne e di Pascal che lo hanno svegliato dal torpore del risaputo, certo è che ha bisogno di trovare Dio nella scia dell’intelligenza e non nel grumo oscuro di una dottrina serrata nei principi inderogabili dell’ ipse dixit. Vacilla, entra nel dubbio, comincia a provare il terrore dell’incertezza. Così le analisi introspettive si fanno materia narrativa di rilievo; Ricotta riesce a caratterizzare bene anche gli ambienti, i professori, i preti, i compagni di camerata. Scrive insomma un romanzo psicanalitico e senza ammiccamenti alla Coscienza di Zeno di Italo Svevo, a Il male oscuro di Giuseppe Berto, a Il fiato materno di Giacinto Spagnoletti.Ogni tanto si lascia andare alla sua vena lirica per pennellare meglio il discorso, per spezzare il ritmo narrativo, per dare l’idea probante delle sue verità.
Non meravigli la bravura di Ricotta nel saper cogliere anche la cronaca nella sua essenza e immetterla nel flusso narrativo (la rivoluzione del sessantotto, la primavera di Praga), e non meravigli che egli sappia coniugare, senza nessuna ragione neorealistica di ritorno, l’espressività dialettale a quella in lingua. Gli viene spontaneo farlo per meglio delineare figure e ambienti, per meglio focalizzare il clima delle situazioni.
Il diario che non c’è, che invano viene cercato nei cassetti, non sappiamo se sia l’ escamotage manzoniana del manoscritto, è certo che ci troviamo di fronte a una presa di coscienza che vuole recuperare il passato, analizzarlo e renderlo lievito del presente. Una sorta di procedimento alla Proust, che evita comunque i compiacimenti e le lungaggini, che sottolinea “l’immortalità del mio dolore con aggettivazioni colorite e pompose” e recita la sofferenza “per abbagliare i posteri”, ma a un certo punto consapevole che “Nel silenzio la santità è ancora più grande”.
Il ragazzo Mario si dibatte nelle contraddizioni, fa perfino dispiacere la madre, produce scompiglio e preoccupazione e così la sua anima via via si schiarisce, trova la sua direzione.
Piace, di questo romanzo, l’accento autentico con cui l’autore si esprime, la franchezza del suo dettato, la variegata maniera di entrare e uscire dagli argomenti senza sostarvi con inutili ghirigori. Addirittura abbiamo una miriade di aforismi, e una infinità di sottili ragionamenti che affrontano il rapporto tra Dio e l’uomo, la fede, la giustizia, la carità e l’amore.
Se dovessi sintetizzare in una definizione la qualità essenziale del libro direi che si tratta di un’opera iniziatica che però non corre verso l’oscurità ma verso il fiato caldo della vita, verso la schiera nutrita di compagni, di professori, di preti, di medici, di familiari, di rettori con quei nomi così difficili e buffi da far pensare che siano inventati e che invece sono rigorosamente presi dalla realtà.
Il momento attuale della narrativa italiana è frastagliato e caotico, quasi sempre privo di ragioni etiche ed estetiche. Si pubblicano libri insulsi, raffazzonati, con l’assenza totale di una struttura. La mia santità nasce dalla necessità di comprendere se stesso e il mondo, di dire una parola di verità sul rapporto con il Divino. Non una parola preconfezionata, ma cercata nell’essenza del proprio essere, rapita all’effimero. E’ per questo che piace e coinvolge, fa pensare e meditare e sa perfino diventare invito a sapersi guardare allo specchio per sapersi riconoscere uomini in cammino verso una radura accogliente e, perché no?, incontaminata.


DANTE MAFFIA