29/07/2005
“La morte in un tripudio di caramelle multicolori”
Questo libro non l'ho mai letto per intero ma è come se lo conoscessi da sempre, da lunghi anni, anzi oltre il tempo della mia amicizia di chi l'ha scritto: medico, psichiatra, autore di opere teatrali, di favole, di racconti. Una storia senza tempo, quella di Mario Ricotta.

Recandomi nel suo studio, non potendo sottrarmi alla lettura in pillole della “Mia santità”, romanzo autobiografico, ne uscivo rapito e profondamente meravigliato: il tempo si era fermato, tutto scompariva nell'incanto del suo narrare! Quei capitoli della sua vita raccontavano l'umano e il divino e svelavano ad un tempo inconfessabili segreti che si materializzavano in racconti d'arte. Intensa testimonianza di una esistenza, inquieta ricerca di un “brandello di verità”.

Già, la verità, come nel silenzio di un setting analitico dove i contendenti, analista e paziente, si studiano e non dicono, in attesa della prima mossa giocata sulle righe di attimi emozionanti: come un urlo e un sussurro insieme nelle intime plaghe dell'anima.

L'infanzia, rapsodia simbolica dell'anima: mondo dorato e perfetto senza morte, caramelle colorate che scendevano dal cielo divino, di un dio vivente e concreto che raccoglieva l'ingenuo desiderio di un bimbo senza età. È questo uno dei topos della narrazione, tra il reale e il metaforico. L'illusione dell'infanzia che muore con l'avanzare della maturità spoglia il mito e si trasmuta in doloroso presente, angoscia esistenziale di giorni vissuti uno per uno.

La carnalità e la sensualità, spazio panico della totalità dell'essere, appartengono ad un déjà vu: tracce di memoria in estinzione, piani in sequenza di una pellicola rovinata.

E da quella infanzia la scoperta del doppio, la lotta tra il bene e il male, le contraddizioni umane che mirano alla coscienza del paradosso, “scandalo dello scandalo”. Figure prismatiche di un'antitesi che ha il sapore della condanna e dell'assoluzione, abiezione e redenzione, l'una verità dell'altra o, forse, menzogna e falsità dell'altra!

Percosse e schiaffi che turbano, quelle che spirano nelle pagine della “Santità”, e compassionevole ascolto delle miserie umane che irridono poteri, anatemi, ritualismi, comode convinzioni, sovrastrutture della paura fattasi preghiera.

L'urlo è il silenzio e il silenzio non ha più da raccontarsi.

Ricco di allegorie il tessuto narrativo che attraversa la condizione dell'uomo, storia individuale che si intreccia con la storia universale: dalla politica alla sociologia, dalla religione alla psichiatria; sinfonia polisemantica, dai colori a volte forti e densi a volte sfumati e in chiaroscuro, che lascia il lettore sbalordito e attonito.

In un'epoca banale e incolore come la nostra, “La mia santità” si fa materia d'arte che trae dalla complessità umana la bellezza dell'inconfondibile, un sentire fuori dal gregge che non offre “risposte” consolatorie e men che meno definitive: l'orizzonte assoluto sembra avere perso la partita con la morte, con il limite, con il finito.

Questo il pregio di un'opera che ci consegna alla speranza di un vivere senza illusioni smascherando false moralità, opinioni diffuse, ipocrisie sociali. L'arte esprime l'unica consapevolezza di un presente di vita che non si aggrappa a nulla e, conseguentemente, la stessa prospettiva del nulla si dissolve nel gesto creativo. Si direbbe, per l'ardita ambizione che l'attraversa, dopo avere letto “La mia santità” non avremo più voglia di leggere altro. Anzi, l'avremo e come! Continueremo a cercare come Diogene pur sapendo che non troveremo la verità. Forse, quando avremo trovato, per dirla con l'autore, “la medicina della felicità e della fede” finalmente vivremo in pace con noi stessi.

Tonino Calà