30/04/2009
La bulimia e la famiglia malata
Ci sono voluti cinque anni a Mario Ricotta - psichiatra di professione e scrittore per intima necessità, secondo l’azzeccata definizione del critico Salvatore Ferlita – per ritornare in libreria. Lo fa con una doppia contemporanea uscita: "Gioco estremo" e "Racconti per caso" delle "Edizioni Progetto Cultura". Chi conosce la scrittura tersa e tirata di questo autore non tarderà qui a ritrovare quella precisa, ostinata, persino ossessiva insistenza tematica, che è il suo inconfondibile modo di intendere la vocazione dello scrivere. Allontanare cioè per ripulsa - così naturale da sembrare istintiva – ogni ammiccamento col lettore. Le sue storie narrate perciò non hanno mai nulla di consolatorio, neppure quando finiscono con un lieto fine. Anche se infatti la vita talora può approdare all’idillio, la letteratura per Mario Ricotta non deve rinunciare ad essere sentinella del "solido nulla". Per non dimenticare che la normalità equivale talvolta al ritorno al paradiso perduto solo a patto di rimuoverne il volto violento e alienante. Sta proprio qui la missione della scrittura: raccontare la felicità altrui sapendo di non poter gioire, raccontare l’altrui tormento per evitare di lasciarsi trascinare. La vocazione al tormento è dunque il tormento della vocazione. Si capisce allora che in Ricotta lavoro professionale e letteratura sprofondino le loro radici in uno stesso territorio: la vita reale con le sue dissociazioni assurde, dolorose e paradossali. Tanto da lasciare infine testimonianza che una certa narrativa che vuol consolare nasconde di voler consolare. In "Gioco estremo", resoconto di un vero caso clinico di bulimia, un altro autore avrebbe potuto titillare il proprio ego vantando un successo terapeutico, Mario Ricotta ha invece preferito segnalare
quanta patologia sociale e familiare si celi dietro un malato. Quella stessa malattia che serve al sistema massmediatico per imbastire spettacolini di fasulla comprensione scientifica o esibita compassione curialesca. Steno - il nome è ovviamente fittizio - è un ventenne senza muscoli, senza carne, senza forma con la pelle secca e disidratata come una mummia. Vomita tutto il cibo che ingerisce, e a nulla è servito il disperato pellegrinaggio da un esperto a un altro sino alla fattucchiera
che avrebbe dovuto guarirlo scacciando il demonio che ha preso possesso del suo stomaco. Il ragazzo inizierà a guarire quando quello psichiatra di uno sperduto paese all’interno della Sicilia ne conquisterà la fiducia esprimendo a parole una verità che lui già possedeva: "Tutta la tua famiglia sta male". Il racconto è una discesa negli inferi di un gioco terminale di chi vuol distruggersi distruggendo o guarire salvando sé stesso e coloro - i familiari - che lì lo hanno precipitato. I personaggi dei "Racconti per caso" invece non hanno la fortuna di incontrare un salvatore. Stanno in bilico tra la volontà di vivere, lasciando una traccia qualunque, e il desiderio di abbandonarsi, sperando di trovare un varco nel nulla o una risposta nel fortuito corso delle cose. Comunque sia, l’indecifrabilità del mondo e la disperazione di non saper o poter essere ciò che si è forse ha a che vedere con l’indisponibilità di un dio. Cioè di qualcuno che dinanzi alla sofferenza dell’uomo non vada alla ricerca di un grumo coerente di sintomi da guarire con pillole e flebo, ma ascolti veramente per capire veramente.

MICHELE MORREALE