21/02/2012
IL SEGRETO DEL CLOWN
“Si curvava fino a toccare terra con le mani e abbassava i pantaloni mostrando il suo deretano nudo, faceva strane flessioni, si piegava sulle ginocchia a granchio, saltellava come una trottola, camminava come un gambero, scodinzolava e leccava come un cagnolino, strisciava come un serpente. Conosceva gli animali e sapeva imitarli. Gonfiava le gote e soffiava col naso a patata con un rumore tale da imitare il vento e la tempesta quando soffia su un bosco di pini o quando infuria sul mare. Il naso diventava appuntito e lungo come quello di Pinocchio e soffiando su un aggeggio misterioso gonfiava la pancia finta fino a scoppiare e come per incanto da essa si liberavano palloni variopinti che volavano, trasparenti e muti, sulle teste dei bambini, planando lentamente sulle loro braccia, sollevate a prenderli. Sembrava che quei palloni avessero un’anima, che fossero addestrati da tempo all’evento. I palloni e i bambini si capiscono a volo, vanno d’accordo. Hanno in comune la leggerezza e la fragilità. Li afferravano con tutte e due le braccia, li stringevano con le dita ad artiglio, conficcavano le unghie fino a romperli. Ridevano. Dallo stupore al riso sfrenato. I palloni sono contenti di finire così perché danno gioia ai bambini. Nascono dalla pancia del pagliaccio e scoppiano sulle loro mani!..”. Incipit del libro di Mario Ricotta Dio peccatore (edizioni Albatros, 344 pagine, 17,50 euro).

SALVATORE FALZONE


Non sono «opinioni di un clown», quelle che marchiano le pagine del Dio peccatore di Mario Ricotta, ma riflessioni letterarie a sfondo religioso, esistenziale e filosofico attorno al mistero di un pagliaccio. Un uomo, un buffone da circo chiamato Giggiolo, mascherato, eterosessuale e pedofilo, che fa impazzire i bambini con i suoi giochi interminabili. E che non può che essere «fonte di peccati e di delitti», per un monsignore come padre Girolamo Gambini, inviato dal vescovo o forse direttamente dai Sacri Palazzi per scoprire l’arcano progetto del clown che i poliziotti, a cominciare dall’ispettore Guido Moroni, non sono in grado di capire. La vicenda, anzi le vicende, si snodano tra fiaba e realtà; e mantengono il ritmo di un giallo ricco di colpi si scena. Le pagine del romanzo (che dall’inizio alla fine dissacra e massacra ogni tipo di potere, religioso, politico o giudiziario) sono popolate da una torma di disperati, drogati, perdenti, falliti che si aggirano senza una meta, cercando nelle stelle i segni di una redenzione impossibile. L’ambiguità, secondo lo stesso Giggiolo, sta al centro della natura. Di più: risale a Dio stesso, supremo clown dagli infiniti volti, dagli infiniti usi e abusi, ineliminabile dalla storia dell’uomo. Anche se poi arriva il riscatto finale: il recupero del vero riso (quel riso che, a dire del monsignore, «non può che essere frutto del peccato») che può immobilizzare la storia e gli eventi. Sullo sfondo si agita l’Italia di oggi, quella della crisi economica, con le sue miserie, la sua povertà culturale, il suo razzismo: Roma, in particolare, ma anche la Sicilia, terra crudele dagli incerti confini, reale e favolosa (una Sicilia dalla quale si può fuggire solo entrando in una fiaba, bellissima isola «devastata da governi e amministrazioni interminabili, una peggio dell’altra», che i siciliani «non hanno mai amato e che tradiscono continuamente »). Già con il fortunato romanzo La mia santità, lo scrittore psichiatra nisseno (Ricotta vive e lavora a Mussomeli, ed è autore, fra l’altro, di numerosi testi teatrali) aveva affrontato il tema della fede e del rapporto con la Chiesa-apparato con quell’approccio problematico che gli viene dalla tormentata esperienza vissuta nel seminario di Caltanissetta, dove da ragazzo ha compiuto gli studi. Ritorna adesso, e con prepotenza, tutto il travaglio dell’autore, sebbene trasfigurato dalle regole della narrativa e per così dire controllato, che fa esclamare a uno dei suoi personaggi che «gli atei sono i più grandi credenti (almeno quelli) che si pongono costantemente il problema di Dio»; e poi ancora: «Vorrei credere come credevo da bambino. Sarebbe una grande consolazione». Così, in un’atmosfera ansiosa e allucinata prende forma la storia di questo clown, umano e blasfemo, secondo cui «Dio è il male», è «il vero colpevole di ogni peccato umano»; questo pagliaccio che rivede la passione di Cristo, verbo fatto carne, che «nella sua più precoce giovinezza gli aveva suscitato amore, desideri di santità e di imitazione fino al sacrificio, all’immolazione », procurandogli perfino pulsioni di carattere sessuale. Questo clown che prima di diventare pagliaccio legge febbrilmente libri di teologia, di filosofia, di scienza matematica, di fisica, di astronomia, di letteratura, per trovare risposta alla domanda che lo ossessiona: chi sono io? «Voglio trovare rifugio in un circo», decide a un certo punto della sua vita. È questa, per lui, l’unica possibilità per vivere. Perché «Dio, figlio di Dio, sembra un gioco di specchi» e «Dio è schizofrenico », cioè scisso fra misericordia e vendetta, e tutta la storia non è storia di salvezza ma storia di falsità fondata sull’ingiustizia. Eppure, una volta entrato nel circo, Giggiolo si rende conto che deve uscirne. Gli basta guardarsi allo specchio per capire che il vecchio assillo è ancora lì stampato nella sua faccia, immutato e senza risposta: chi sono? Un clown? Così decide di togliersi la maschera e lasciare quella città eterna stanca della sua stessa storia, spossata dai governi, dai cortigiani e dai corrotti, per riacciuffare le proprie radici in Sicilia, nel cuore arido ma vero dell’entroterra. Alla fine (ma c’è finale in questa narrazione?) Giggiolo ritorna sulla scena ed è un successo senza fine. Fa il pagliaccio e i bambini ridono. «Ridevano, ridevano, ridevano» scrive Ricotta nell’ultima pagina del romanzo «un riso che non finisce. E il riso usciva dal circo, inondava la campagna circostante, raggiungeva la città di Roma» e gli «altari dei preti fino in Vaticano e impediva le loro funzioni, i palazzi del potere, i ministeri, il palazzo del governo, i parlamenti e impediva di legiferare, di governare… Il riso dei bambini era incontenibile e riempiva ogni spazio, ogni luogo, ogni pensiero. Impediva a Dio di peccare».

Tratto da "La Repubblica" del 19/02/2010