30/07/2005
L'amico della
Io non ho letto l’ultima opera di Ricotta. Mi è stata raccontata, somministrata a piccole dosi come per curare uno stato di anemia e infondere euforia alla creatività dormiente, o come un veleno, blando, che aiuta a liberarsi dalla maschera ghignante del quotidiano. A poco a poco, capitoli, pagine, brandelli scomposti, nei nostri incontri dell’ultimo decennio, lasciando a me il compito oneroso di dare un posto alle tessere del mosaico, per ricomporre un quadro che fosse quanto più vicino possibile alla realtà narrata. Spesso saltava frasi, una descrizione, un’immagine intima. Pudore di mostrare senza veli la sua storia? Ma quel che occultava non era difficile da immaginare, troppo vicine le nostre vite, simili le esperienze che hanno mosso i nostri passi, unico l’ambiente, il suo mondo, il mio. Frammenti di vita messi insieme a fatica che l’autore racconta a se stesso per non dimenticare. Padre Deodato, immagine di un passato visto con occhi nostalgici di fanciullo, il fratello maggiore, sostegno sicuro alle prime incertezze, San Frangiore, contrada d’elezione, giardino fatato dei giochi, con le sue grotte e i suoi anfratti da usare a nascondiglio. Un mondo rivissuto che conserva intatto un passato che si snoda nella lotta tra l’apparire e l’essere. L’autore, da uomo profondamente religioso, capace di scandagliare le profondità nascoste dell’anima sofferente, ha scelto l’essere. Ha avuto il coraggio di non disperdere la sua esperienza lasciandosi trascinare dalla fantasia, anzi, l’ha controllata da vicino per non esserne travolto, così come ha controllato la lingua, rifuggendo da ogni barocchismo. Il suo linguaggio è diretto, asciutto, essenziale, non un aggettivo sprecato. Egli non ha giocato con le parole facendone ghirlande, ma ha usato quelle che servivano, il superfluo l’ha gettato via. La sua vita: l’emblema di ogni vita nella sua corsa dalla sofferenza alla redenzione. La sua santità: l’apertura incondizionata del suo animo verso l’altro, il prossimo.
Peppe Messina