31/07/2005
Un orizzonte divino
Raggiungere Dio e liberarsi di Dio. Senza il miraggio di olimpiche serenità finali né smerciando furbi sgomenti pascaliani, l’ultima frontiera di scommesse che comunque si vogliono pur sempre vincere. Un’unica certezza invece il libro di Mario Ricotta ci consegna. Nulla è garantito, neppure torcendosi in vertiginosi tormenti. Anche premi e punizioni dell’al di qua e dell’al di là sembrano piuttosto argomenti contro Dio. Assoluto resta soltanto il bisogno di Assoluto. Tanto che nelle pagine finali del romanzo sembra di risentire la supplica atea di Giorgio Caproni: una preghiera a Dio non perché esiste ma perché esista. La mia santità è un’opera in cui si sente il pensiero, non la fatica del pensare. Rende chiaro il profondo con un lirismo privo di funambolici virtuosismi. Quelli che autori a corto respiro usano per tappare penurie d’interiorità. La lingua qui invece aderisce perfettamente alle ossessioni del personaggio, senza che il lettore - neppure per un attimo - se ne distacchi distraendosi ad ammirare la bellezza della parola scritta. Occorre perciò chiudere il libro per accorgersi di quanto letterario sia lo stile usato. L’abilità di nascondere la propria cifra stilistica e, ne siamo sicuri, persino le preoccupazioni linguistiche sono un merito raro anche in celebrati scrittori. Importa poco perciò che il romanzo non sia costruito con una canonica architettura narrativa e secondo piani temporali scanditi e consequenziali. Molto più significativo è ciò che l’autore è riuscito a evitare. Pur avendone tutte le opportunità tecniche e professionali (Mario Ricotta fa lo psichiatra di mestiere), non ha rifatto Il male oscuro di Berto. È andato oltre; non l’inconscio come approdo ultimo, non la compiaciuta richiesta di comprensione o compatimento del lettore, ma come un argonauta dello spirito si è librato sino ai cieli metafisici per una domanda impossibile anche all’onnipotenza divina.
Michele Morreale